La Foresta del Borneo

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"Nelle Foreste di Borneo" di Odoardo Beccari

La selva non avrebbe potuto essere più selvaggia. è possibile che qualcuno, Malese o Daiacco, vi fosse penetrato prima di noi in cerca di guttaperca o di rotang, ma nessun indizio rivelava allora che orma umana ne avesse mai calcato il suolo. Di rado anche i Malesi si avventurano in una foresta primitiva per più di un miglio o due dalla sponda dei fiumi. Sul principio il terreno era piuttosto asciutto; ma non era impraticabile perché lo spazio fra i tronchi più grossi era tutto occupato da piante giovani della specie d'alto fusto, e da un immenso e svariatissimo numero di piante del sottobosco. Sul terreno giacevano tronchi enormi che in pochi anni, forse mesi, restituiranno al suolo quello che durante secoli lentamente gli avevano sottratto.

Con tale foresta il cammino spedito è impossibile; bisogna ad ogni istante evitare gli ostacoli e farsi strada con i "parang". Io pure avevo subito sostituito al mio coltello da caccia questo strumento malese, molto più efficace del mio e più facile a maneggiarsi. Abbiamo l'avvertenza di fare ogni tanto qualche incisione sui tronchi degli arbusti e di piegarne la punta nella direzione nella quale si cammina. è questa una delle precauzioni indispensabili per non smarrire la strada nella foresta. Non esistendo oggetti variati, riconoscibili da lontano, e spesso accade, dopo aver lungamente errato, di trovarsi al punto di partenza.

Nella foresta, come nell'oceano, si avanza e sempre l'orizzonte si chiude dietro di noi; con la differenza che nella foresta l'orizzonte si trova a pochi passi all'ingiro. La foresta inspira più timore dell'oceano e del deserto. Qui vi è il sole che guida di giorno; nella notte ci sono le stelle. Nella foresta vergine di Borneo il cielo è sempre invisibile; se il sole a momenti si intravvede attraverso il fogliame, a poco serve per orientarsi, a causa del gran cerchio che percorre nel cielo. Nel deserto e nella pianura sterminata è difficile che manchi qualche oggetto, una collina, un sasso, che indichi un progresso in avanti, verso la mèta che si vuol raggiungere; nella foresta invece più si avanza e più si va verso l'ignoto. Si ha paura di progredire, perché più si va innanzi, più ci sembra di non poterne uscire più.

è possibile che molti animali provino, come l'uomo, il timore di smarrirsi nella foresta. E forse questo sentimento restringe assai la distribuzione geografica di molti animali dei paesi forestali, in confronto di quella estesissima degli abitatori delle steppe e dei deserti.

A momenti, in certe ore della giornata, regna nella foresta una calma quasi paurosa. La natura sembra come assopita. Appena, prestando molta attenzione, giunge all'orecchio un suono, un grido, un sibilo, un rumore non mai prima avvertito, che tradisce la presenza di un uccello, un guizzo di uno scoiattolo, un volo di un insetto.

Ma la Foresta di Borneo è così multiforme nelle varie ore del giorno e a seconda della stagione e del tempo, che nessuna descrizione riuscirà mai a farne acquistare un'adeguata idea e a chi non vi abbia vissuto. Infiniti e variati sono gli aspetti sotto i quali si presenta, come i tesori che nasconde. Le sue bellezze sono inesauribili. Nella foresta l'uomo si sente veramente libero; quanto più vi si aggira e tanto più se ne innamora; quanto più la studia e tanto più si accorge che non riesce a conoscerla. Il suo mistero, sacro alla scienza, tanto appaga lo spirito del credente, quanto quello del filosofo indagatore.

Procedevamo a stento, sempre con la bussola alla mano. La foresta paludosa e selvaggia vegetazione di rotang, di Pandanus e di altre grandi erbe a foglie spinose rallentava sempre più il nostro progresso in avanti. Incontrai per la prima volta, frequente, la Nepenthes Rafflesiana (una di quelle singolari piante per le quali Borneo è così famosa) che portava grandi urne od ampolle piene d'acqua, riccamente macchiate di sanguigno e pendenti, come da un filo, alla estremità delle foglie.

Le prime notti passate nella foresta vergine furono un incanto indimenticabile. Non ero ancora abbastanza abituato alla vita del giongle, per poter fare tutto un sonno sulle scorze dure e sul piano ineguale del lankò. E nei momenti di veglia vedevo la foresta sotto un nuovo aspetto, non meno bello di quello del giorno. Le notti erano calmissime, non il più leggero alito muoveva una foglia.

La temperatura aveva quella giusta misura, che non rende avvertibile la sensazione dell'aria sul nostro corpo (27° c.)

Il silenzio profondo e solenne era solo interrotto, a lunghi intervalli, dal grido aspro e penetrante dell'argo. Fra le radure lasciate dagli alberi abbattuti appariva a lembi il cielo sereno, ma non del blu intenso di quello d'Italia; nello scintillio delle stelle, eguagliava quello che si vede nelle nostre notti.

L'aria oscurissima riluceva ad istanti di sottili e fantastiche fiammelle: erano i palpiti d'amore di enormi lucciole.

Per terra l'oscurità profonda della notte svelava tutto un mondo, che la luce del sole nascondeva durante il giorno. Ogni foglia morta, ogni ramo, ogni stecco putrescente era luminoso, e tramandava un fioco bagliore attraverso la sottile nebbia che si sollevava dall'alto strato di humus della selva. La pioggia del giorno aveva come acceso un fuoco in tutta quella rete di filamenti fangosi (i miceli) che, invadendo le spoglie abbandonate della grande vegetazione, lentamente le disorganizzava e le bruciava.

Un grosso tronco in decomposizione, a qualche passo di distanza da me, emanava una luce fosforica, che proveniva da certi funghi bianchi, appartenenti ad una specie di agarico. Un solo individuo di questo fungo, posato sopra un giornale, permetteva di leggerne i caratteri, tanto era intensa la sua luce, bellissima e bianchissima.


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