Piante e Pianeti



Le piante erano viste in stretta relazione con il cosmo, il Sole e la Luna, e gli altri pianeti allora conosciuti. (anche la Luna e il Sole erano ritenuti pianeti, per gli antichi).
Come mai - ci si era chiesto - esistono sulla Terra alberi altissimi, svettanti verso il cielo, e fusti più piccoli, giù giù fino ai cespugli, le erbe e i funghi?
Perché i pianeti ne regolano la crescita, perché ogni pianeta ha la sua pianta, che gli è sacra, ne carpisce e ne riflette le forze cosmiche.

Gli alberi in genere (e la quercia in particolare, albero che era già al centro delle cerimonie druidiche di "castrazione sacra"; si veda il discorso del vischio) appartengono al Sole: essi esprimono il massimo grado della perfezione vegetale, la piena manifestazione della potenza solare.

Gli arbusti, quasi sempre spinosi, sono di Marte, il pianeta sacro al bellicoso dio della guerra.

Le felci, duttili, sempreverdi, sono dedicate a Giove, simbolo dell'energia divina.

Le erbe e i fiori non possono essere che di Venere: riflettono grazia, bellezza, amore espressi dalla Dea e dal pianeta a lei dedicato.

I muschi, che vivono nelle prossimità umide delle caverne e delle grotte, gli antichi accessi al mondo degli inferi e delle tenebre sono di Mercurio, che era per i Greci messaggero degli Dei e guida delle anime dei morti.

Le alghe appartengono alla Luna, il globo che governa le acque e la vegetazione palustre.

I fungoidi, che rappresentano il primo gradino dell'evoluzione, il tentativo d'ascesa verso forme superiori, sono posti in relazione con Saturno, il pianeta dedicato al mitico padre di Giove che perde il dominio del mondo ed è ricacciato negli inferi, da cui tenta costantemente di evadere per riacquistare l'antica potenza.


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La Sanguinaria (un'erba delle Graminacee) è pianta del Sole. Particolarmente attiva e benefica nelle relazioni amorose, mantiene un costante collegamento astrale fra le persone che deve unire, vi aggiunge una specie di nodo invisibile, ma tenace. Per ottenere l'esito sperato bisogna cogliere la Sanguinaria in un'ora governata da Venere in un giorno di giovedì, preferendo l'ora diurna se deve operare su un uomo, e l'ora notturna se deve operare su una donna.




La Ninfea è la pianta della Luna. La sua essenza è favorevole alle imprese connesse coi viaggi, ma estende la sua influenza anche alle escursioni dell'immaginazione, che stimola fortemente suscitando sogni e visioni. Essenza magica della Luna è anche l'Ireos, le cui esalazioni notturne provocano l'angoscia, e a volte, persino la morte.



La Cinquefoglie è la pianta magica di Mercurio. Conferisce il dono del sapere. Portata sulla persona come talismano, favorisce la ricchezza, la scoperta di cose preziose, persino tesori. Predispone all'interiorizzazione, specialmente nei giorni di mercoledì, nelle ore governate da Mercurio.


La Verbena è la pianta di Venere. Si può agire magicamente su un soggetto, per influenzarlo nel sonno, se si scelgono le ore notturne di Venere, lunedì, in fase di luna nuova.


L'Acanto è la pianta di Marte. Dona forza e coraggio e aiuta a risolvere i problemi più complessi se si impiega nelle ore diurne di Marte e nei giorni di Giove. Usato nelle ore notturne mercuriane, predispone però all'imprudenza, alla collera, alla violenza.



Il Giusquiamo è la pianta di Giove. Infonde saggezza, illuminazione, prosperità. Per ottenere questi benefici effetti, si deve agire di giovedì, nelle ore diurne.


Il Salice è la pianta magica di Saturno. Se ne può trarre, se usato il sabato, una grande forza morale e la capacità di dominare gli spiriti.


Il Frassino e il Gelso



Da "Il libro delle piante magiche"

IL FRASSINO

Quest'albero, che cresce nei boschi di montagna, è notoriamente utile per il legno chiaro e forte che, nelle antiche credenze, rappresenta spesso l'onestà e la forza delle persone a cui venga dedicato dalla nascita. Le sue ceneri godono fama di possedere virtù curative eccezionali, e furono quindi usate per fabbricare vari impiastri.
Se avete un frassino nel vostro giardino - aggiungono gli inglesi - osservatelo attentamente: ogni suo malanno ne rifletterà uno proprio a voi o a qualcuno dei vostri cari. Guai, poi, se l'albero fosse abbattuto o morisse per qualsiasi causa: ciò segnerebbe un imminente lutto familiare.
La credenza ha un'antica superstizione, secondo cui una strega venne cacciata dal palazzo di un sovrano a cui aveva chiesto cibo e rifugio, proprio con un ramo di frassino. Lanciata la tradizionale maledizione, la strega la lasciò operante per secoli, tanto da far nascere la convinzione che ogni frassino caduto o rinsecchito causasse la morte di un membro della famiglia reale entro un anno.
A supporto di questa "teoria" viene portata l'esecuzione di Carlo I, re d'Inghilterra e di Scozia, decapitato nel 1649, esattamente un anno dopo che era stato abbattuto il suo frassino.
Stando a un'altra credenza diffusa un po' ovunque, il frassino respingerebbe i serpenti in genere e le vipere in particolare: è certo per questo motivo che per tanto tempo i bastoni da passeggio sono stati tratti preferibilmente da tale pianta.
Del frassino si parla nella mitologia germanica come dell'albero cosmico: eternamente verde, unisce il Cielo alla Terra, e dalle sue fronde si sparge la rugiada. Le sue radici vanno in tre direzioni: una conduce al mondo sotterraneo, agli inferi, l'altra al regno dei giganti del gelo e la terza a quello degli uomini.
Alla sommità della pianta si incontrano gli Dei i quali si servono di uno scoiattolo per far giungere i loro messaggi agli umani.






IL GELSO

La storia di Piramo e Tisbe, che sta alla base del mito sulle bacche del gelso (le more sono prima bianche, poi rosse e infine viola scuro), è tragica. Ovidio, il primo autore che la narra, la colloca a Babilonia, e quindi se ne deduce che la leggenda non è greca, ma asiatica. I due splendidi giovani si amavano teneramente ma di nascosto a causa dell'opposizione delle famiglie. Le loro case erano vicine, sicché essi si parlavano attraverso una crepa del muro divisorio, però non potevano vedersi né abbracciarsi. Così si diedero appuntamento a una fonte, sotto un gelso, "fecondo di bianche frutta" che li riparava dagli sguardi indiscreti. Ma un giorno Tisbe, arrivando per prima, fu terrorizzata scorgendo una leonessa venuta a bere e fuggì lasciando cadere il suo velo che la leonessa trovò sul sentiero. Con le fauci insanguinate, perché aveva appena ucciso una preda, lo lacerò. In quel mentre giunse Piramo, il quale, vedendo le tracce della leonessa, poi il velo macchiato di sangue, credette che Tisbe fosse morta. Disperato, se ne sentì responsabile e non potendo sopravvivere alla sua amata, si affondò la spada nel cuore. Il sangue, sgorgando, tinse di rosso i frutti del gelso. Tornata sui suoi passi, Tisbe non ne riconobbe il colore, ma vide il corpo del suo amato a terra e, decisa a ritrovarlo nella morte, così parlò al gelso:

"Albero, tu che ricopri coi rami ora il misero corpo d'uno di noi, coprirai tra non molto la salma di due.
Serba le macchie del sangue e col sangue ognor scure le frutta, che ben s'adattano al lutto, ricordo di duplice morte!
Disse: ed all'infimo petto s'oppone la punta del ferro caldo tuttora del sangue dell'altro e si lascia cadere.
Ne secondarono il voto per altro gli Dei e i parenti serbano scuro il colore le bacche mature del gelso ed un'unica tomba le ceneri posano insieme"

Da questa storia drammatica Théophile de Viau trasse nel 1617 una tragedia.       






L'Urlo della Mandragora




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Mandragora: da secoli e secoli ne parlano occultisti, maghi, alchimisti, erboristi, elecandone le prodigiose proprietà, ma pochi hanno avuto la fortuna di vederne un esemplare.
Eppure (ci dicono i manuali di botanica) la mandragora è abbastanza comune nell'Europa meridionale: in Italia la si può trovare in luoghi sassosi e ombrosi, tanto al mare che in montagna. Però, avvertono gli stessi testi, è una pianta rara.
Anzitutto non è facilmente identificabile, tanto che solo gli esperti la riconoscono. La parte fuoruscente dal terreno è costituito da un ciuffo d'erba in cui, all'epoca della fioritura, occhieggia una piccola corolla azzurra. Quella più notevole è nascosta sottoterra: la radice può essere infatti molto lunga, anche fino a un metro, e grossa più di 30 centimetri; caratteristico è il suo odore, decisamente fetido.
Pure la mandragora appartiene alla famiglia delle Solanacee ed è, quindi, parente della belladonna e dello stramonio: contiene parecchi alcaloidi, alcuni dei quali non ancora identificati, con azione molto simile all'atropina.
La radice ha una forma vagamente antropomorfa, in quanto si biforca in due tronconi. Come a tutte le piante aventi una certa somiglianza con il corpo umano, anche ad essa è attribuita un'azione tanto afrodisiaca quanto propiziatrice della virilità e della fecondità. Ma come si spiegano tutti gli altri suoi presunti poteri che le hanno assegnato il ruolo di "regina delle piante magiche"?
è un mistero che neppure le leggende - numerosissime - ci aiutano a svelare. Perché è diffusa fin dall'antichità la credenza secondo cui la mandragora "urlerebbe" nel momento in cui viene estratta dal terreno e si darebbe poi a terribili vendette, tanto più che non la si potrebbe cogliere impunemente senza seguire un preciso rituale?
Non sappiamo: certo è che già Apuleio nel V secolo Cristo, ci descrive l'esatta maniera di procedere, così ripresa da un trattato medioevale: "In una notte illune ci si rechi sul posto e si cominci a scavare con un arnese che non abbia alcuna parte di ferro. Quando si saranno scoperte le braccia e le gambe della mandragora, si leghi a queste una corda di cui si sarà fissata l'altra estremità al collare di un cane affamato. Si lanci poi il più lontano possibile un pezzo di carne: l'animale si getterà a raccoglierlo e, così facendo, estrarrà dal terreno la radice preziosa. Sentendosi strappata dal suolo, la mandragora fa udire un terribile grido d'agonia, capace di uccidere un uomo; nell'istante in cui il cane la sradica, perciò, si soffi forte dentro un corno, il suono del quale coprirà l'urlo della pianta, salvando chi la raccoglie. La morte della mandragora esige il sacrificio di una vita: si uccida dunque il cane, se non si vuol pagare il prodigioso acquisto con la propria esistenza."
Ma la mandragora era conosciuta in tempi molto anteriori. Ce ne parla addirittura la Genesi (XXX,14) dicendoci che Reuben, avendone trovata una, la portò alla madre Lea. Rachele, venuta a sapere della cosa, supplicò la donna di cedergliela: mangiandola, sperava di poter finalmente avere un figlio.
In Grecia la pianta è citata da Asclepio un millennio prima della nostra era, e poco dopo troviamo un'indicazione terapeutica volta a combattere la malinconia e la depressione.
A Roma, nel primo secolo dopo Cristo, Celso Aulo Cornelio afferma, nel suo "De re medica", che la mandragora è un ottimo sonnifero: non occorre neppure preparare un decotto o mangiarla, basta metterla sotto il letto. E Antonio Musa, un medico dell'Urbe imperiale, descrive una panacea universale, a base di semi di giusquiamo e mandragora.
A definire la pianta "antropomorfa" pare sia stato Plinio, il quale ne distinse anche il sesso: quella bianca è maschio, quella nera femmina. La botanica, al contrario, prende in esame solo la grandezza: la femmina è quella più piccola.
Il periodo aureo della mandragora fu ovviamente il medioevo. Cominciarono a circolare storie assurde: si diceva che la pianta nasceva dal sangue dei decapitati oppure dal seme degli impiccati; di qui le macabre ricerche notturne ai piedi dei patiboli, mentre tornava in auge l'antico rituale per estrarla. Era usata ad innumerevoli scopi: nei filtri d'amore, per attirare il denaro, per aumentare il fascino della donna, per sviluppare poteri medianici, per assicurare l'invulnerabilità. In Germania (dove è chiamata Alraum, derivato da "runa", che significa "arcano") con la sua radice si tessevano addirittura vesti per guerrieri, alle quali era attribuito il potere di respingere le armi nemiche.
L'occultista francese Lémery (1727) asserisce: "La mandragora di specie maschile serve a far sì che il prossimo soggiaccia alla volontà del mago ed è usata soprattutto in magia nera, mentre la mandragora femmina ha una parte preponderante nei rimedi d'amore, assicurando l'affetto del compagno o della compagna, accrescendo il desiderio e la fedeltà."
Il naturalista Fodéré afferma di avere raccolto una pianta di mandragora e di averla portata nel proprio laboratorio, provando però sensazioni molto spiacevoli tali da procurargli una serie di malesseri: un senso di vertigine, di debolezza, unito a un languore che lo rese incapace non soltanto di lavorare ma persino di stare in piedi. Tutto questo svanì non appena ebbe aperto la finestra. Lo stesso Fodéré attribuisce gli strani effetti della pianta non soltanto al suo odore nauseabondo, ma a qualcosa che né li né i suoi assistenti riuscirono a chiarire.
Ancora nel 1947 un moderno alchimista francese assicura che "possedere una mandragora significa avere nelle mani una forza irresistibile, ricchezza, potere, amore."
Ci si espone però a grandissimi rischi, perchè soltanto il Diavolo può fare in modo che si rintracci questa pianta, che gli è indissolubilmente legata. In tal modo, impossessandosene, ci si porta praticamente in casa il Demonio, il quale potrebbe comparire quando si esprimono pretese esagerate, esaudendo sì i desideri, ma pretendendo in compenso l'anima di chi li esprime.
Secondo Lavile, un altro occultista d'Oltralpe, la mandragora, nascosta in un mazzo di violette, assicura sia un grande ardore amoroso sia l'attaccamento supremo della persona che si vuole conquistare. La composizione del mazzetto profumato è probabilmente dettata dalla necessità di soffocare l'odore, non certo piacevole, emanato dalla mandragora. Attenzione a non usare fiori a caso: frammenti di mandragora mescolati a viole, iris e clematidi, possono con l'andare del tempo, provocare uno stato di languore, di spossatezza il quale potrebbe anche condurre alla morte.
Dobbiamo sorridere a queste credenze? Sì, ma non troppo. La suggestione, si sa, pesa molto, e la mandragora si porta appresso millenni di tenebrosi significati magici ai quali è difficile opporre la ragione. Possiamo tuttavia ricordare che un noto erborista contemporaneo, Sother Turtula, ebbe la fortuna di trovare in Italia una bellissima mandragora, la cui radice misurava 81 cm di lunghezza. La colse dal suolo con tutta la delicatezza possibile, quella che bisognerebbe sempre usare per separare i vegetali dal loro ambiente naturale, ma non ricorse ad alcun rituale: non aspettò "una notte illune", non si servì di un cane, non compì alcun sacrificio non adoperò un arnese speciale, e malgrado ciò, non udì alcun urlo né venne colpito da alcun maleficio.



"Anthropomorphos", così Pitagora chiamava la mandragora, pianta erbacea della famiglia delle Solanacee, diffusa in tutta l'Europa meridionale, il cui nome, datole dal medico greco Ippocrate, sembra derivi dal persiano "mehregiah" (erba dell'amore).
Conosciuta nell'antichità come afrodisiaca, la mandragora godeva fame di possedere straordinarie virtù terapeutiche, come ad esempio curare la sterilità femminile. A tutto il XIV secolo la pianta era parte integrante della teriaca, mentre la religiosa Ildegarda di Bingen (una delle donne più geniali dell'intero Medioevo, nota di Lunaria) l'apprezzava come antidolorifico. Sbalorditive erano le capacità magiche attribuitele. Ma la radice di mandragora, importantissima nella composizione di filtri d'amore, poteva anche provocare allucinazioni, deliri o addirittura follia. Nel Medioevo le streghe consumavano nei Sabba grandi quantità di pozioni a base di mandragora, anche per acquistare poteri eccezionali. A tale proposito Njanaud, nel suo trattato sulla Licantropia, del 1615, riferisce di un particolare unguento a base di mandragora che le streghe adoperavano per trasformarsi in animali: la famosa Licantropia!






 "In un'anfora si pongano tre libbre di scorza di radice di mandragora  e di vino dolce, che si pone a macerare il tutto, in vino dolce. Chi deve essere operato dovrà bere tre calici di questa pozione, allo scopo di non avvertire il dolore del taglio" è quanto consigliava nel Medioevo il "Codice Viennese 93". Dall'odore fetido, la radice di mandragora (dotata di una notevole tossicità) ha attualmente una scarsa importanza farmacologica. Contiene atropina, attualmente utilizzata in medicina.

Per curiosità: ad Atene, verso la fine del XIX secolo, i giovani portavano pezzetti di mandragora nelle loro borse come amuleti d'amore.

La leggenda dell'urlo della Mandragora ha ispirato anche la band italiana Mandragora Scream per il loro nome!
      














Il Vischio


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Perché, tra i tanti sempreverdi, proprio l'agrifoglio e il vischio accompagnano le feste natalizie?

La leggenda nordica che ce ne narra l'origine non è molto allegra. Baldur, figlio di Odino, venne ucciso da un suo nemico, Loki, appunto con una freccia tratta da un ramo di vischio.

Odino maledisse la pianta, ma la moglie del Dio, piangendo la morte di Baldur, vi fece cadere alcune lacrime, che diventarono perle: così il vischio fu rivalutato, anche se fu allontanato dai templi in favore dell'agrifoglio, il cespuglio accanto al quale era spirato Baldur, reso da Odino sempreverde e dotato di bacche rosse, in ricordo del sangue sparso dal figlio.

L'agrifoglio venne subito ammesso nelle chiese cristiane, mentre al vischio ne fu a lungo vietato l'accesso, dato l'uso fattone dalle religioni pagane, che lo avevano rivestito di tanti significati magici. Poiché ciò sia avvenuto, resta un mistero, anche se numerose leggende circondano questo sempreverde.

Il vischio è una pianticella parassita di diversi alberi, con foglie verdi e dure e frutti a bacca bianchi. In genere, però, il mito si riferisce al vischio quercino, parassita delle querce che ha foglie più piccole di quello comune.

Vischio e querce erano sacri ai druidi, gli antichi sacerdoti celtici, e sacro era il rituale con cui, durante il solstizio d'inverno, i rametti venivano staccati dall'albero: l'operazione veniva effettuata con un falcetto d'oro, e il vischio, per non perdere i suoi poteri occulti, non doveva toccare il suolo, ma essere raccolto in un panno di lino.

Plinio ci spiega questo complesso procedimento dicendoci come i druidi ritenessero così di "evirare la quercia". La credenza ci porta alla magia similitudinaria: il liquido appiccicoso del vischio era forse paragonato a quello spermatico, per cui la pianticella era ritenuta apportatrice di fertilità.

Curioso è il fatto che tale credenza non sia propria soltanto dell'Europa celtica: la troviamo pure presso gli Ainu dell'antico Giappone, dove anche il rituale per cogliere il vischio era pressapoco uguale a quello dei druidi. "Molti credono ancora oggi che questa pianta abbia il potere di far fruttificare i giardini", ci dice Frazer. "E si sa che qualche donna sterile mangia vischio per avere prole."

Anche in molte regioni africane, la pianticella è considerata sacra, apportatrice d'incolumità, tanto che i guerrieri Valo, andando in guerra, ne portavano addosso le foglie per assicurarsi l'invulnerabilità.

In Europa troviamo altre credenze: i contadini di molti paesi (compresi alcuni italiani) ritenevano il vischio capace di domare gli incendi, per cui ne appendevano i rami sui tetti delle case.

In Boemia lo si chiamava "scopa del tuono" poichè lo si considerava in grado di allontanare i fulmini.

Il vischio è stato usato anche in campo terapeutico: nella Francia meridionale lo si applicava sull'addome dei sofferenti di colite, in Svezia e in Inghilterra lo si pensava atto a preservare dagli attacchi epilettici, mentre in alcune regioni tedesche lo si mette tuttora al collo dei bambini per immunizzarli dalle malattie.

Tali credenze - ci dice Frazer - sono forse dovute al fatto che gli uomini di ogni tempo e luogo hanno visto qualcosa di soprannaturale in questa pianta che cresce e prospera senza affondare le radici nella terra. Non sappiamo se la spiegazione sia davvero questa: sta di fatto che la chiesa ha cercato a lungo e inutilmente di far dimenticare i poteri magici del vischio, vedendosi infine costretta ad accettarne l'uso e a inserirlo nella tradizione cristiana.

Alla pianticella (come all'agrifoglio) è stato così attribuito il generico simbolo di pace e serenità.


Approfondimento tratto da questo vecchio ritaglio di giornale trovato per caso



Il Natale viene associato al verde, alla Stella di Natale, all'agrifoglio, al pungitopo, al vischio. Specialmente il vischio, è foriero di buona fortuna. è una pianta semiparassita, sempreverde, che "nidifica" sui rami di quercia ma anche del melo, pero, pino.

 è famoso fin dall'antichità. Era sacro ai Druidi che pensavano rivelasse la presenza delle divinità sulle querce su cui cresceva. 
Il sesto giorno di ogni mese lunare i druidi tagliavano rami di vischio con un falcetto d'oro e lo riponevano in panni di lino candido senza fargli toccare il suolo. Il rito era legato alle cerimonia della fertilità, di cui il vischio era un simbolo.
Analoga simbologia si ritrova in Giappone e in alcune regioni africane.
In Europa, alcuni credevano che il vischio rendesse fertile la terra o che potesse allontanare il fuoco: per questo era chiamato "la scopa del tuono".
Tra tutte queste credenze, in particolar modo, ve ne è una, poetica e drammatica: la leggenda della morte del dio Balder (Baldur).
Figlio di Odino, fu ucciso dal fratello rivale Hödhr, con un ramo di vischio.
Odino maledisse la pianta ma la moglie del dio piangendo, vi fece cadere alcune lacrime che si trasformarono in bacche perlacee.
L'agrifoglio, su cui era caduto morto Balder, fu ornato da Odino di bacche rosse, a ricordo del sangue del figlio.

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Eracle era anche connesso al culto del Fallo e al rito dell'Evirazione: "Il mito dell'evirazione di Urano ad opera del figlio di Crono [...] Il significato originario è quello dell'eliminazione annuale del vecchio re della quercia da parte del suo successore [...] La cerimonia druidica del taglio del vischio della quercia rappresentava l'evirazione del vecchio re da parte del suo successore essendo il vischio un simbolo eminentemente fallico. Dopo la castrazione il re veniva mangiato eucaristicamente".

Anche la ghianda è un simbolo fallico, così come il fungo. 








Il Cipresso e il Pioppo


I cipressi erano accostati alla morte già nell'antica Grecia.
Come questo sia avvenuto ce lo racconta Ovidio, narrandoci la storia di un giovanetto di nome Ciparisso il quale, inseguendo un cervo per gioco, gli scagliò un dardo; non aveva intenzione di ucciderlo ma purtroppo così accadde.
Ciparisso rimase molto colpito; si accostò al cervo e, provando un acuto senso di rimorso, cominciò a piangere a dirotto. In quel momento comparve Apollo: osservando la scena, volle che l'episodio vivesse almeno simbolicamente nel tempo e operò una magica trasformazione; le lacrime del fanciullo e il sangue dell'animale divennero a poco a poco di colore verde intenso, mentre i due corpi si unirono in un tronco. Era nato il cipresso, al quale il Dio così si rivolse: "Sarai pianto da me, piangerai sugli altri, sarai presente presso chi soffre."  






Il pioppo:  narra un antico mito, riportato da Virgilio, che Fetonte, figlio del Sole, dopo aver implorato a lungo il padre perché gli lasciasse condurre il suo cocchio fiammeggiante, si vide accordare il permesso. Fetonte cominciò la corsa, ma poichè le sue forze erano troppo deboli per tenere a freno i destrieri, il carro veniva trascinato senza controllo: quando saliva troppo in alto, sulla Terra scendeva il buio mentre dove si riavvicinava troppo non restavano che campi riarsi. Gli uomini invocarono l'aiuto di Giove che, adirato, scagliò un fulmine contro Fetonte, che precipitò nel Po. Le sorelle lo piansero per giorni, e alla fine Giove, impietosito, lo trasformò in pioppo, fermo lungo le rive.
La favola mitologica è la conferma della millenaria presenza di questo albero nei pressi dei corsi d'acqua lombardi. Se ne conoscono due varietà: il pioppo nero, con corteccia scura e foglie verdissime (associato alla Dea della morte)  e il pioppo bianco, dal tronco chiaro e con foglie verdi sopra e bianco argentate sotto, legato alla resurrezione. I contadini ne piantavano uno alla nascita di ogni figlio.

Il Sambuco e l'Ulivo












Questo arbusto, diffuso in Europa e nell'Asia mediterranea, ha fiori che vengono usati sia nella farmacopea autentica, sia nella medicina popolare, per infusi sudoriferi. Con i suoi frutti si prepara il cosiddetto vino di sambuco con funzione lassativa, mentre altri prodotti con virtù salutari si hanno dal midollo binco dei rami.
L'arborea Sambucus Nigra, la più comune, ha un significato magico sinistro, poichè alcuni popoli credono che proprio a questa pianta si sia impiccato Giuda Iscariota: sarebbe quindi prediletta dalle streghe, che si trasformerebbero nella pianta stessa per evitare le persecuzioni, fino a quando spirando un vento migliore, ridiverrebbero donne per volarsene via. Ad evitare che l'albero diventi rifugio delle incantatrici non c'è che da tagliarne un ramo e bruciarlo.
In Inghilterra si dice che un sambuco "malefico" può essere riconosciuto in modo semplicissimo, spezzandone un ramoscello: da quello stregato dovrebbe sgorgare una goccia di sangue. La credenza deriva da una cronaca medievale, stando alla quale la stilla di sangue sarebbe uscita da un arbusto di proprietà di una vecchia contadina, riconosciuta come incantatrice e come tale bruciata sul rogo.
Le altre specie di sambuco possono essere usate per fabbricare decotti contro l'angina e il mal di gola, l'erisipela, i reumatismi, il morso dei serpenti, l'idrofobi e le convulsioni.
Il sambuco che cresce accanto a un salice, ha, poi, virtù incomparabili: assicura una vita lunghissima e dà modo di trarre dalla stessa tutto quanto si vuole. Sarebbe, insomma, il corrispondente vegetale della famosa pietra filosofale.







Per i Greci non esisteva frutto più utile dell'oliva e non si può neppure immaginare la civiltà greca e la Grecia stessa senza l'ulivo. Come oggi, anche nell'antichità le olive venivano consumate nere, cioè mature, dopo essere state lasciate a macerare un po' di tempo nell'acqua affinché perdessero il sapore aspro, oppure verdi, e in questo caso venivano sciacquate, poi lasciate a bagno in acqua dolce e salate leggermente. L'olio ricavato dai frutti per pressione era un prodotto di prima necessità. 



Non veniva utilizzato solo in cucina ma, impiego quasi altrettanto importante e più nobile, per l'illuminazione; ciò avveniva già nella Creta minoica: innumerevoli lampade di argilla, di steatite, di pietra tenera, di marmo e di bronzo indicano chiaramente che, nei palazzi come nelle capanne, l'olio era usato per l'illuminazione, e la capacità di tali lampade denota come l'illuminazione fosse lussuosa, né si badava a fare economia. L'olio di oliva serviva anche alla cura del corpo, che esso rendeva brillante; anche agli Dei e agli eroi nell'Odissea piace frizionarsi con l'olio per conservare la loro bellezza luminosa e immortale. L'olio di oliva costituiva inoltre la base degli unguenti e dei profumi. 


Olio di rosmarino


Lo si utilizzava per preparare le salme, per le unzioni sacre, nella medicina e nella magia e infine se ne facevano offerte agli Dei.

Malgrado sia oggi inseparabile dal paesaggio greco, l'ulivo non è nato in Grecia. Le ricerche dei botanici hanno stabilito che il suo habitat originario è l'Asia Minore, dove forma vere e proprie foreste nell'estesa regione che, partendo dall'Arabia meridionale, e risale passando dalla penisola del Sinai, dalla Palestina, la Siria e la costa meridionale della Turchia fino ai piedi del Caucaso. Fu lì, con tutta probabilità, che si cominciò a coltivarlo. Non è perciò sorprendente che la prima menzione dell'ulivo si trovi nei capitoli della Genesi in cui è narrato il Diluvio: "Noè aspettò ancora altri sette giorni, poi fece di nuovo uscire dall'arca la colomba (la prima volta non avendo trovato dove posare il piede, la colomba era tornata indietro) e la colomba tornò da lui, verso sera, ma ecco, essa aveva nel becco un ramoscello fresco d'olivo". Lo sdegno di Dio si era placato, le acque si erano ritirate, la vegetazione cominciava a rinverdire.




Fin dall'origine, l'ulivo fu per gli Ebrei uno dei doni più preziosi di Jahveh, il simbolo stesso dell'alleanza da lui conclusa con gli uomini nella persona dei patriarchi. L'olio d'oliva serviva alla consacrazione. Così, "L'inviato di Dio" del quale il popolo aspettava la venuta era chiamato il Messia, "l'Unto del Signore", tradotto in greco con Khristòs.





Il Mandorlo



Principessa di Tracia, Fillide si innamorò di Acamante, figlio di Teseo, partito per la guerra di troia. Quando la flotta degli Achei si accinse a tornare in Grecia, Fillide cominciò a spiare, dalla riva, l'arrivo della nave del suo amato. Ma avendo questi, a causa di un'avaria, subito un ritardo, la sventurata morì di dolore. Era, la Dea degli amori fedeli, la trasformò in un mandorlo. Il giorno dopo, quando Acamante sbarcò, potè solo stringersi alla sua corteccia, ma subito sul legno ancora privo di foglie apparvero i fiori: la storia di Fillide ricorda la grazia virginea della fioritura precoce del mandorlo, ma anche la sua fragilità, perché è spesso rovinato dalle gelate primaverili. 

Aconito


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Al genere Aconitum vengono attribuite 280-300 specie, diffuse nelle regioni di montagna dell'emisfero settentrionale. Hanno fiori di una bellezza decorativa, e sono coltivati a scopo ornamentale.

Tutta la pianta contiene degli alcaloidi tossici, il principale dei quali è l'Aconitina: la dose letale è di appena 3-8 mg.
Per fortuna, le radici (velenosissime) sono ben radicate nel terreno, in profondità, e non è facile estrarle. L'avvelenamento da Aconito si verifica più frequentemente nei bovini, ovini e caprini che brucano foraggi contenenti piante di Aconito.



Nell'uomo l'avvelenamento da Aconito si manifesta con del prurito che inizia dalla bocca, poi si estende al volto, seguito da sensazioni di freddo, sudore, vomito, affaticamento, ansia. La morte sopraggiunge per insufficienza respiratoria e cardiaca e la vittima rimane pienamente cosciente fino alla morte.

L'Aconitina, in forme terapeutiche minime, veniva usata per farmaci contro le nevralgie.
Anticamente, l'Aconito veniva usato per avvelenare i prigionieri; in India, le frecce venivano intinte nell'Aconitina.
Le streghe, nel Medioevo e nel Rinascimento, usavano l'Aconito per avere "la sensazione di volare".

L'Aconito, un'erba delle Ranuncolacee, si trova in zone con molta ombra e umide, nei pressi dei fiumi, e i loro bellissimi fiori di un azzurro intenso, a forma d'elmo, non devono essere toccati: il veleno della pianta può penetrare nella pelle! 

Nota di Lunaria: per curiosità, l'Aconito è citato in un romanzo della Regina del Rosa Charlotte Lamb: "La Torre nel Bosco"


Una delle scene migliori del romanzo (seppur problematica) è quando Yves tormenta Elizabeth con uno stelo di Aconito, molto ben descritto da Charlotte Lamb: l'Aconito è una delle piante più velenose del mondo. 

Nella narrazione della Lamb, però, c'è un'imprecisione: anche solo toccarlo a mani nude può comportare l'avvelenamento e Yves lo tocca a mani nude e lo usa per sfiorare Elizabeth. Scena molto suggestiva e in un certo senso anche sexy (se il tutto fosse fatto col consenso di lei e l'Aconito non fosse così velenoso...) ma NON emulatela nella realtà! 
Con l'Aconito non si scherza.

"Udì nuovi suoni: un passo sull'erba, un respiro. Qualcuno le si inginocchiò al fianco, qualcosa le sfiorò la guancia. Sorrise, senza aprire gli occhi.
"Vicky, mi fai il solletico!..."
Freschi petali di fiore le scesero sulle labbra sorridenti. Socchiuse le palpebre: una macchia azzurro intenso e, dietro, Yves de Lavalle. Sussultò.
"Chi lo chiama Napello, chi lo chiama Aconito", cantilenò lui, in maniera incoerente.
Rabbiosa, lei sbottò: "In inglese si chiama veleno di lupo!"
Lo conosceva sotto quel nome, infatti: il lungo stelo verde con le spighe di fiori azzurri disposte a scaletta le era familiare. Era anche il preferito di Damian, che l'aveva disegnato e dipinto decine e decine di volte, nel tentativo di riprodurre esattamente la sfumatura azzurra delle corolle. Cresceva nei boschi d'estate, e non era sempre facile scovarlo nell'ombra, ai piedi degli alberi.
"Nome perfetto", ammise Yves, sorridendo, e i suoi denti candidi parevano quelli di un predatore e negli occhi neri aveva lo sguardo paziente di un lupo in agguato.
"è velenoso, lo sapeva?", lo sfidò lei. 
"Mortalmente velenoso", annuì lui, ma non guardava il fiore, guardava lei, il suo corpo dorato e semisvestito.
"Ma tanto bello", aggiunse, e mosse il fiore in una carezza sensuale giù per la sua gola, il petto, lo stomaco nudo e le lunghe gambe.
Di scatto, lei lo scostò.
"Non mi tocchi! Se ne vada! Se ne vada da sua moglie! Io non la voglio!" (...) Si mise seduta e si sarebbe alzata in piedi se lui non l'avesse bloccata, prendendola per le braccia e ricacciandola giù. (...) Lui accentuò la stretta, tenendola ferma sull'erba tiepida, poi si abbattè sul suo petto, cercandole la bocca. (...) Aveva bisogno di lui, voleva essere sua, bramava da lui l'estasi che da tanto tempo non provava! Eppure, lo conosceva appena, e quello che sapeva di lui non le piaceva! Non poteva amarlo! (...) Si odiò per quello che faceva, ma era più forte di lei. E lui? Lui era sposato e la disprezzava tanto quanto la desiderava. Sì, si può disprezzare e amare insieme, si può odiare e amare insieme, lei lo sapeva. Contro il suo corpo che vibrava e ardeva, il corpo di Yves ardeva e vibrava."